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The Menu, il film:
Un estremismo che fa gioco alla narrazione senza renderlo una noia per quelli del settore, ma che fa anche riflettere profondamente su quanto in questi anni abbiamo dato credito a programmi e chef fino a convincerci che prendere un aereo per cenare al NOMA di Copenaghen spendendo metà del nostro stipendio fosse un sogno da realizzare. (da Vice, 24/11/2022)
Diciamo la verità: in troppi non hanno capito il senso di questo film. Critica compresa.
Preferisci ascoltare? Ecco qui il nostro podcast:
Secondo il nostro umile parere, questo è una delle pellicole meglio riuscite degli ultimi anni.
Ma perché in tanti non l’hanno capito?
Non è un film semplice, come tutti i film che implicano un’analisi psicologica dei personaggi. A questo si aggiunge il fatto che se non hai lavorato in un certo ambiente è impossibile capirne le sfumature più sottili.
Ma andiamo con ordine.
“NON C’è MODO DI EVITARE IL MASSACRO”
Ogni giorno uno Chef si sveglia e sa che sarà un massacro. Alzi la mano chi ha provato almeno una volta nella vita questa sensazione. Attenzione, con questo non vogliamo spaventare nessuno, ma solo portare un po’ più di consapevolezza su un settore, quello dei ristoranti, fatto di professionisti che si spaccano la schiena tutti i giorni perché gli ospiti abbiano in tavola dei capolavori.
Basta non farlo, direte voi. Certo, non ci sarebbero più ristoranti, rispondiamo noi. Di nessun livello.
Come dice lo Chef Julian Slowik nel film, interpretato egregiamente da Ralph Fiennes, si tratta del massacro della vita, del corpo, della salute mentale. Trovare un equilibrio vita/lavoro per chi è nell’ambito della ristorazione è affare difficile. Soprattutto se la ristorazione inizia a farsi stellata. Turni massacranti, zero tempo per la vita privata, ritmi incalzanti ad ogni turno, richiesta di standard sempre più elevati e essere sottoposti al giudizio costante degli ospiti, sempre più difficili e sempre più pretenziosi.
Onestamente, viste queste premesse, chi diamine vorrebbe un lavoro simile? Umanamente parlando, nessuno. Ma poi entrano in scena delle dinamiche psicologiche della società perversa nella quale viviamo dove prestigio, fama, successo, carriera, “yes, you can” sono i pilastri su cui si regge un sistema che sta a poco a poco collassando, soprattutto nella ristorazione e soprattutto in quella stellata.
LO CHEF CANTASTORIE: NON PIÙ CIBO PER NUTRIRE, MA VIAGGIO ED ESPERIENZA
Andare al ristorante è diventato un viaggio o un’esperienza, non più un momento destinato solo al nutrimento o alla convivialità. Nel film questo concetto è ben evidenziato dal fatto che per arrivare al ristorante si debba compiere proprio un viaggio fisico: attraversare in barca un lago per raggiungere un luogo sperduto, dove non prende neanche il cellulare, massimo tripudio dell’esperienza sensoriale. Non è così forse nella realtà con alcuni ristoranti stellati?
Il viaggio prosegue poi a livello di servizio e a livello gustativo, creando negli ospiti altissime aspettative: tutti i sensi DEVONO essere soddisfatti. La “location” deve essere di alto design; piatti, posate e bicchieri dei marchi più blasonati; i vini obbligatoriamente dei più pregiati; le portate innumerevoli e bizzarre per colpire vista, olfatto e gusto; il servizio deve essere impeccabile per far sentire l’0spite un vero re in tavola. Nel film questo viene portato all’estremo: cosa si inventerà Chef Slowik per colpire gli ospiti?
Ma chi c’è dietro a questo viaggio? Chi permette che sia possibile e a quale costo personale? Ce lo chiediamo quando usciamo a cena e pretendiamo sempre di più?
Non è che, forse, il bisogno dell’ospite di essere sempre più stupito e colpito sta portando la ristorazione a farsi macchietta di se stessa? Basta guardare le portate del menu del film. Ad un certo punto vengono serviti gli accompagnamenti non accompagnati, ovvero non accompagnati dal pane ma accompagnati da applausi e ohhhh per la genialità dell’idea. Genialità? Siamo sicuri che stiamo andando nella direzione giusta con questo tipo di ristorazione? Non staremo forse snaturando l’idea stessa di cibo?
Noi avremmo preferito avere il pane, che rappresenta la quotidianità e la semplicità. Ma non è forse questa proprio una provocazione da parte dello Chef? La nostra lettura è la seguente: siete stufi della normalità, della quotidianità, della semplicità? Beccatevi solo gli accompagnamenti.
Se fate attenzione alle espressioni facciali dello chef, grazie alla maestrale interpretazione di Ralph Fiennes, noterete che mentre lo Chef esclama:
ma voi, miei cari ospiti, non siete persone comuni, quindi stasera, non avrete pane
c’è una forte tristezza nello sguardo e anche una punta di sfida e un q.b. di presa in giro. L’avete notato?
Insomma, lo Chef deve trasformarsi in cantastorie, non è più solo colui che cucina ma colui che narra storie (per certi versi assurde, come quella degli accompagnamenti non accompagnati) e proietta gli ospiti in un universo onirico, come quello della fiaba. L’ospite non vuole realtà, vuole fantasia. Vuole finzione e rottura della quotidianità. Cosa che Chef Julian Slowik serve loro su un piatto d’oro (con finale da sogno-incubo o da favola senza lieto fine compreso – insomma, da questo punto di vista il film rompe davvero la banalità del quotidiano – speriamo che nessuno Chef prenda ispirazione…).
L’OSPITE NON GRADITO: DECIDO IO SE PUOI VIVERE O MORIRE
Perché non si accomoda, stiamo per servire,
dice il sous chef a Tyler, interpretato da Nicholas Hoult. Pensate davvero che questa frase non nasconda un
non rompere i maroni, vai a sederti che abbiamo un botto di roba da fare e vedi di mangiare.
Esattamente, l’ospite non gradito è soprattutto colui che, avvicinandosi allo chef o a qualcun altro della brigata, si sente in dovere di sfoggiare la propria saccenteria in materia di ristorazione.
Sarà per colpa di questa saccenteria che Tyler sarà messo a dura prova dallo Chef e sbeffeggiato davanti a tutti gli ospiti.
Ho sentito il sapore,
dice Tyler allo Chef, che gli risponde:
Sì, lo so, lei l’ha individuato, messo a fuoco. Lei è un cuoco e i cuochi devono stare in cucina. Cucini, coraggio! Scalogno per l’intenditore raffinato! Avvicinatevi tutti, dobbiamo imparare da Tyler!
E così Slowik obbliga un Tyler impaurito a mettersi ai fornelli.
Chef, mi rivolgo a voi: ditemi che almeno una volta nella vita non avreste voluto fare la stessa cosa con chi, al tavolo o a fine serata, vi dava consigli culinari sui piatti che avevate presentato durante la serata. Dai, non siate timidi! Soprattutto con chi si mostra saccente ma sappiamo benissimo non essere in grado neanche, forse, di farsi degli spaghetti aglio e olio. Ditemi che non avete sentito la voglia di dire a qualcuno:
Dai, mettiti lì tu e vediamo cosa sei capace di fare! O sei capace solo di criticare e dire questo si fa così e questo si fa cosà. Bene, mettiti in cucina e vediamo cosa riesci a fare. Se riesci a mettere in piedi un piatto, se riesci a gestire una brigata, se riesci a spararti 12 ore di turno, vediamo…
Non nascondiamoci dietro ad un filo di paglia: oggi tantissime persone si sentono esperte della materia perché hanno seguito tutte le puntate di MasterChef o di qualche altro format del genere. Ed è vero, ci sono tantissime persone molto appassionate di cucina che conoscono tutte le tecniche professionali. Ma un conto è conoscerle e farle a casa propria ed un conto è proporle a migliaia di persone in un ristorante. Non pensiate sia la stessa cosa.
Per alcuni chef l’ospite non gradito è anche quello che fotografa i piatti. Noi, personalmente, non abbiamo mai capito questo divieto. Cosa nasconde? Voglia di riservatezza o mancanza di fiducia nelle proprie capacità culinarie? Qui dovremmo lasciar parlare chi impone questa regola nel proprio ristorante. Ne conosco giusto un paio…
Ma per certi versi capiamo anche che andare al ristorante è diventato più un bisogno di fotografare piatti instagrammabili (e mostrare ai nostri “amici” dove siamo stati), che non quella di mangiare e capire l’arte dello chef o goderci la convivialità del momento. Siamo distratti dal cellulare, siamo concentrati sulla foto e le prime impressioni svaniscono per colpa del cellulare che si frappone tra noi e il piatto. Se i sensi devono essere colpiti, ci perdiamo vista (non ditemi che la fotocamera può darvi una reale esperienza di un piatto, anzi, spesso lo trasforma in un orrore) e olfatto (anche perché o annusiamo o ci concentriamo a scattare la foto).
Detto questo, da qui a vietare le foto ce ne passa. Viviamo nella paura di dimenticare i ricordi e il cellulare ci regala la sicurezza di stampare per sempre nella nostra mente i viaggi e le esperienze che facciamo, anche al ristorante. Cosa ne pensi?
Per concludere, l’ospite non gradito è colui che non mangia. Non toccate l’ego dello chef pensando di non finire i piatti: devono tornare in cucina come fossero appena stati lavati!
Il menu ha senso solo se mangia
dice Chef Slowik a Margot, interpretata egregiamente da Anya Taylor-Joy. Tra parentesi, Margot è l’unico ospite che comprende la follia della situazione sin dall’inizio, e unica che comprenderà la vera natura dello Chef e il suo desiderio più profondo. L’unica che non cade nella follia del sistema, che salva la sua anima e che verrà premiata per questo dallo Chef.
Diciamo che vedere tornare un piatto pieno, mezzo pieno o non finito, ferisce non poco l’ego di uno Chef che è alla continua ricerca del godimento dell’ospite: perché non ha finito il piatto? Cose è successo? Cosa non è andato bene?
Voglio lanciare una provocazione, però: è voler appagare l’ospite, è una forma di controllo o è una continua ricerca ossessiva di appagamento del proprio ego? Vi lascio alla visione del film, perché non vogliamo rovinarvi il finale dove è racchiusa un’altra perla da Chef: “decido io se puoi vivere o morire”.
SÌ CHEF! LA BRIGATA: GIOIE E DOLORI
Nel film tante situazioni sono portate all’estremo. Per quanto riguarda la brigata, addirittura viene mostrato agli ospiti lo stanzone nel quale dormono tutti insieme. Questa è un’estremizzazione, ma diciamo che concettualmente l’idea è la seguente: dobbiamo stare tutti insieme anche nella vita privata perché, di fatto, una vita privata non l’abbiamo e la brigata diventa la nostra famiglia. Una famiglia un po’ tossica, vorremmo aggiungere. Anche nei momenti di maggiore intimità: infatti il bagno è senza porte. Non vi sembra più una prigione che un ristorante? O un’impostazione da esercito?
Non è tanto lontano dalla realtà: quando passi 12, 14 o 18 ore a lavorare insieme ad altre persone, con chi altro potresti condividere la tua vita se non con chi conosci e parli tutti i giorni?
Anche perché, parliamoci chiaro: quante ore libere rimangono realmente se non quelle per dormire e per i bisogni corporei? Ecco il concetto di quella scena dello stanzone.
Questa scena rivela anche un altro aspetto, che è quello del cameratismo militaresco. Sì, perché, purtroppo la cucina è anche questo.
Insomma, lo riassume bene Chef Slowik in una scena (riprendiamo la frase iniziale di questo articolo):
la cucina è pressione. Pressione per produrre il miglior cibo del mondo. E anche quando tutto va bene e il cibo è perfetto, le persone soddisfatte, e anche i critici lo sono, non c’è modo di evitare il massacro. Il massacro che fai della tua vita, del tuo corpo, della tua salute mentale.
Lo ripetiamo: se non ha mai lavorato in un ristorante, soprattutto ad alti livelli, difficilmente capirai questa sfumatura. Nessuno chef arrivato al livello di carriera di Chef Slowik augura ad altri di fare il suo stesso lavoro, soprattutto se si rende conto, come nel film, di come ha distrutto la sua vita per inseguire la soddisfazione del proprio ego e dei propri ospiti.
Ma ancora di più se, come nel film, i suoi desideri erano altri e non è riuscito ad aderire a questi ma è rimasto intrappolato nella ruota del successo a tutti i costi, della rincorsa alle stelle, al bisogno di ottenere la soddisfazione della critica… insomma, se è rimasto intrappolato in un meccanismo nel quale qualsiasi cosa si faccia non è mai abbastanza.
Un meccanismo e una pressione che spesso portano a “sfogarsi” c0n alcool (durante o dopo il servizio in quantità), droghe (dalla cannetta alla coca), bullissimo o nonnismo (scarico la mia rabbia e la mia tensione su qualcuno d’inferiore). Ne avevamo già parlato in un precendente articolo che ti invitiamo a riguardare.
Quando chef parla del massacro vediamo la sua gioia nell’essere arrivato dov’è arrivato ma anche la fatica , la tristezza, la pesantezza di quel lavoro che lo ha portato alle stelle ma per il quale ha dovuto sacrificare tutto, ma proprio tutto. Dice Chef Davide:
avendo conosciuto tanti chef bravi capisco molto bene il messaggio che con questo personaggio si vuole lanciare. Si tratta della storia dell’eroe che sacrifica tutto per un bene superiore: peccato che qui si tratti solo di far da mangiare.
E ritorniamo quindi al concetto di soldato e di missione: lo chef e ogni componente della brigata si sentono invasi da una missione che pare di vita e di morte (e vedremo che la morte sarà ben presente in scena ad indicare questo aspetto). Ognuno con il proprio compito dal quale non vuole essere spodestato.
Prendiamo il caso, nel film, della maître di sala che viene spodestata dal suo ruolo per l’arrivo nello staff di una nuova ragazza. Questo è un caso classico nella ristorazione. Molto spesso stando a contatto per tanto tempo con i propri colleghi si crea quella sorta di “famiglia” allargata, come dicevamo prima, che però crea chiusura nei confronti del nuovo, soprattutto se questo nuovo ricopre un ruolo che pensavi fosse tuo. Così iniziano gli screzi che portano a sbottare, soprattutto se si lavora 12 e passa ore al giorno sotto pressione.
Nel film è descritto magistralmente.
Questa scena mi ha riportato alla luce un sacco di ricordi legati a situazioni del genere,
dice Chef Davide. Non dimentichiamoci che salendo di livello (quindi ristoranti stellati) il modello militare è molto presente con anche atti di nonnismo, purtroppo.
CONCLUSIONI: IL DIO CHEF DI THE MENU
Vi lascio con le parole di Chef Davide, che riassume perfettamente la questione:
Ce la sentiamo di brutto, nel nostro essere ci sentiamo un pochino Dèi. Noi che trasformiamo la materia con maestria nelle tempistiche strette, con stress regolare giornaliero, e con il “mitico” doppio turno che è una delle cose più massacranti di questo lavoro.
Oggi noi chef ci sentiamo chiamati a fare questo per qualcosa di superiore, dobbiamo trascendere la materia, scomporla, riaggregarla, ordinarla e renderla bellissima. Ma in tutto questo c’è anche molta frustrazione, la frustrazione di non esser capiti, che i nostri piatti non vengano apprezzati.
Pensiamo infatti che le persone comuni non riescano a capire il nostro piatto. Nel suo essere divino, lo chef pensa che il cliente che mangia la carbonara scomposta, ad esempio, non possa capire l’innovazione che gli sta proponendo. Perché noi esseri superiori abbiamo le chiavi della vita.
Ora naturalmente ho scherzato un pochino su questo punto, ma ti garantisco che qualcuno se la sente così veramente. “Oh tu, plebeo non entrare nemmeno dalla mia porta, non capiresti”.
Chissà quando cadrà il mito del Dio Chef. Perché ricordiamocelo, prima o poi tutti finiscono nell’oblio…
Grazie per avermi letto fin qui! Se vuoi puoi condividere l’articolo con le persone che sono interessante a questo argomento!
Tiziana Caretti
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