Preferisci ascoltare? Ecco qui il nostro podcast (questa è la primissima puntata):

Carne coltivata. Due parole sono sufficienti per scatenare panico e disinformazione. Normalmente chiamata carne sintetica in italiano e clean meat in inglese, questa alternativa alla carne da allevamenti ancora non è realtà nel continente europeo. Cosa possiamo fare nell’attesa che lo diventi?

Prima di raccontarti il resto della storia, ti ricordo che abbiamo messo a disposizione una lezione gratuita dalla nostra scuola di cucina dedicata all’omelette baveuse vegan: ormai uno dei secondi piatti vegani immancabile per gli studenti della nostra scuola.

Qual è il segreto per farla morbida, gustosa e digeribile senza usare quella terribile farina di ceci che in poco tempo non cuoce neanche con preghiere in qualsiasi lingua del mondo?

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Ma veniamo al nostro argomento principale di questo articolo, ovvero la carne coltivata e i secondi piatti vegani e cosa fare nell’attesa che la carne coltivata arrivi sulle nostre tavole.

Partiamo!

IL PROBLEMA DEGLI ALLEVAMENTI: LA SOFFERENZA ANIMALE in PRIMIS

Il problema degli allevamenti intensivi è un problema enorme che i governi si rifiutano di gestire. Anzi, continuano a sostenerne i costi enormi con sovvenzioni che arrivano anche dalle nostre tasche facendo finta che non sia un costo per la società a livello sia di inquinamento che di salute. Non siamo noi a dirlo, per fortuna, ma voci autorevoli dal mondo della scienza di qualsiasi settore.

Se poi si prova ad affrontare il capitolo sofferenza animale, apriti cielo! “Cosa ce ne importa, l’importante è che siamo sazi noi e che il nostro palato sia esaudito!”. Come vivano e muoiano i miliardi di animali che ogni giorno vanno al patibolo importa a una percentuale irrisoria della popolazione mondiale. Quello che importa è che la pancia sia sazia e che la popolazione mondiale raggiunga lo stesso stato di “benessere” occidentale, anche a livello di consumi alimentari pro capite. D’altronde, come biasimarli? Continuiamo a dare di noi una certa immagine di benessere personale legata al consumo di derivati animali. Cos’altro possiamo aspettarci che succeda dall’altra parte del mondo?

Se a questo aggiungiamo un capitalismo sfrenato che non sa più come reggersi in piedi se non con un continuo sfruttamento di qualsiasi essere esistente su questo pianeta, ecco che il cocktail micidiale è servito.

CARNE COLTIVATA: DI COSA SI TRATTA

Negli anni, più e più persone si sono scervellate per arrivare a delle soluzioni che possano da un lato servire una platea sempre più affamata di proteine animali e dall’altro il capitalismo rampante. Le soluzioni sono arrivate sia con i surrogati di carne e pesce che sono entrati sul mercato negli ultimi anni, sia con il tentativo, ancora timido, della carne coltivata.

Ma cos’è la carne coltivata?

La disinformazione in merito è altissima. Ma non ce ne stupiamo più: già il solo fatto di chiamarla carne sintetica e non carne coltivata ci fa capire quanto poco si voglia approfondire l’argomento ma partire con un tono negativo nei confronti di questo prodotto. Sappiamo benissimo come gli italiani reagiscono alle parole “sintetico”, “chimico” o similari. La disinformazione spesso è servita nei titoli dei giornali. E pensare che c’è invece chi la chiama clean meat, ovvero carne pulita. A chiamarla così nei titoli si partirebbe con un tono decisamente diverso. O no?

Cerchiamo di capire un attimo cos’è questa carne coltivata. Lo faremo con parole semplici per cercare di arrivare a tutti, non ce ne abbiano gli addetti del settore.

Il processo di coltivazione cellulare si basa su quattro passaggi e non è tanto diverso da quello per fare la birra, per capirci:

  1. le cellule satelliti vengono estratte dall’animale attraverso una biopsia di un pezzo di carne della grandezza di un seme di sesamo (o da una piuma);
  2. queste cellule vengono messe in un solvente ricco di sostanze nutritive per alimentare le cellule e permettere loro di dividersi e crescere di numero, all’interno di bioreattori di fermentazione (al netto di non usare sostanze nutritive di origine animale, anche se questo problema è già stato risolto);
  3. vengono poi stimolate con corrente elettrica, per trasformarle in muscoli e farle crescere in massa;
  4. infine, la carne viene raccolta e migliorata aggiungendo grassi o altri gusti.

Una volta che il processo è partito, teoricamente, è possibile continuare a produrre carne coltivata all’infinito, senza aggiungere nuove cellule da un organismo vivente: secondo alcuni studi svolti dalle aziende del settore, da dieci cellule muscolari di maiale si potrebbero generare 50.000 tonnellate di carne in soli due mesi di produzione in vitro. Tutto questo mentre il maiale a cui è stata fatta la biopsia è ancora vivo e vegeto.

IL PARERE DEL COMITATO ETICO FONDAZIONE VERONESI

Il comitato etico della Fondazione Umberto Veronesi si è espresso a favore e a “sostegno dello sviluppo e diffusione di tecniche finalizzate alla produzione di carne e altri derivati animali da colture staminali” o con altre tecniche come la stampa di carne in 3-D. Insomma, anche il comitato della Fondazione Veronesi è a sostegno della carne coltivata.

Vi invitiamo a visionare il documento della Fondazione risalente al 2019 perché molto interessante. Troverete le motivazioni a sostegno, tra le quali:

una significativa riduzione della sofferenza animale, migliori pratiche igieniche, minori contaminazioni batteriche, nessun rischio di “mucca pazza”, influenza aviaria o diffusione di antibiotico-resistenze, un minore consumo energetico e di suolo, e una produzione di gas ad effetto serra significativamente minore rispetto agli odierni allevamenti intensivi.

Solo queste motivazioni sarebbero sufficienti ad aprire un dibattito pubblico per andare in direzione contraria agli allevamenti animali. A patto, ovviamente, che venga eliminato definitivamente il siero fetale bovino per la crescita cellulare e che non ci sia realmente sfruttamento animale.

COSA FACCIAMO ASPETTANDO LA CARNE COLTIVATA?

Il problema legato alla carne coltivata sono gli investimenti enormi in termini economici, i tempi di messa in produzione e l’approvazione da parte di ogni stato della vendita del prodotto sul mercato. Insomma, siamo ancora lontani dal vedere la carne coltivata sugli scaffali dei supermercati, purtroppo.

E nel frattempo, cosa facciamo?

La nostra soluzione è già sotto gli occhi di tutti, pronta all’uso e con ingredienti facilmente reperibili da chiunque.

Sapete come si chiama questa soluzione? CUCINA VEGAN e SECONDI PIATTI VEGANI.

Ahhhh, giammai! Ma le proteine poi da dove le prendiamo?

Nonostante tutto quello detto precedentemente, la resistenza alla cucina vegan è ancora altissima, con nostro grande stupore. Capiamo che a pochi importi della sofferenza animale, ma basterebbe pensare a questo: il 19% dei gas serra viene emesso da agricoltura e allevamento. Gran parte dell’agricoltura attualmente è ad uso allevamenti animali. Basterebbe questo per respirare più aria pura ovunque, soprattutto in Lombardia dove ha sede il 90% degli allevamenti italiani che ha emesso più ammoniaca nel 2020.

Se vi piacciono i numeri, non potete perdervi il libro Clima. Come evitare un disastro. Le soluzioni di oggi le sfide di domani. Prima di storcere il naso leggendo l’autore, leggete il libro. Poi nel caso storcete il naso. Già che siamo ai consigli di lettura, vi consiglio anche Clean Meat: How Growing Meat Without Animals Will Revolutionize Dinner and the World (tradotto ovviamente in tante lingue tranne che in italiano).

MA LE PROTEINE DA DOVE LE PRENDIAMO?

Dicevamo che la soluzione è già sotto i nostri occhi e alla nostra portata. Si chiama secondi piatti vegani. Attenzione: non intendo quei piatti vegani in cui le patate o il cavolfiore sono spacciate come secondo. Intendo dei secondi piatti realizzati con criteri e con cura di ingredienti e gusto.

Noi lo diciamo da anni: la rivoluzione parte anche dal palato. Se non proponiamo ai nostri ospiti dei piatti gustosi, difficilmente capiranno che vegan può essere un’alternativa (a parte i casi persi, che comunque potrebbero un giorno stupirci).

Vediamo un attimo quali sono le alternative alla carne per non stare a fissare il soffitto mentre aspettiamo che la carne coltivata diventi realtà.

I LEGUMI, PATRIMONIO GASTRONOMICO ITALIANO

Lo diciamo da sempre e lo ripetiamo: i legumi sono uno dei grandi assenti della cucina italiana (soprattutto della ristorazione italiana – eccetto i ristoranti vegani virtuosi), nonostante le innumerevoli varietà coltivate nel nostro paese. Insomma, non è un segreto che la ristorazione non sappia gestire i secondi piatti vegani!

Come possiamo usare i legumi come si deve?

Non di soli ceci vive un vegano. E neanche di sola farina di ceci. Questo è un punto fondamentale. Non significa che non sia un ingrediente fantastico, ma che possiamo far spazio ad altri legumi quando ci capita l’occasione di trovarli nel nostro negozio di fiducia (o dal contadino se siamo in una zona fortunata d’Italia).

Di che altri legumi parliamo? Vediamo velocemente quali possiamo usare per i nostri secondi piatti vegani (questa è una lista veloce e non esaustiva):

  • Cicerchie
  • Fagioli (ne esistono centinaia di qualità. Eccone alcune: all’occhio, Lima, neri, borlotti, cannellini, lamon, bianchi di Spagna, azuki, fagioli neri, rossi, Toscana – Zolfino, toscanello e coco nano -, del diavolo – molto grandi…)
  • Fave 
  • Lenticchie (anche di questi legumi ne esistono tante varietà, come: verde di Altamura, rosse, di Colfiorito, di Castelluccio di Norcia, di Ustica, di Villalba, di Onano, di S. Stefano di Sassanio, di Altamura, nere – dette Beluga -, di Rascino, di Pantelleria, di Leonforte, spagnole marroni Pardina, francesi Puy, indiane gialle…)
  • Soia (pensate che in Italia ne vengono coltivate più di 40 varietà)
  • Lupini
  • Piselli (verdi e roveja).carne coltivata e secondi piatti vegani

Una volta che abbiamo individuato quelli che ci piacciono di più, vediamo come gestirli. Ecco i nostri consigli, come insegniamo nei corsi Piatti Unici:

  1. ne consigliamo l’acquisto secchi. Magari per i giorni di emergenza potete tenere qualche barattolo di quelli già pronti (di cui trovate però meno varietà), ma ricordatevi di strizzarli bene se li usate per burger o crocchette, altrimenti risulteranno troppo bagnati e rischiate di non ottenere un buon effetto finale;
  2. Lasciali in ammollo anche una notte intera prima di cuocerli o usarli. In questo modo sarà più semplice cuocerli e trasformarli;
  3. Quando li metti in ammollo aggiungi un quadratino di alga kombu e lasciala fino a fine cottura. Mi raccomando, controlla sempre la cottura perché alcuni ci impiegano più di altri a cuocere (devi fare in modo che non siano né duri né spappolati).

Ricordiamoci che, oltre ai legumi secchi, per i nostri secondi piatti vegani possiamo anche usare:

  • legumi decorticati, questi sono adatti per chi ha difficoltà a digerirli cuociono più velocemente;
  • fiocchi di legumi, molto versatili e utili per i secondi piatti (lo vedrai nella masterclass Secondi Piatti Vegani);
  • la farina dei vari legumi. Sugli scaffali trovate quasi solo farina di ceci, ma se hai un power blender o un mulinetto puoi creare la farina partendo dal legume secco che preferisci (ricordati di setacciarla sempre prima di usarla). Con un risparmio in termini economici notevole (e in questo modo puoi avere a disposizione tutte le farine di legumi che preferisci).

Al ristorante nella carte dei secondi piatti vegani mettevamo sempre un diverso tipo di legume, soprattutto quelle varietà poco conosciute come quelle dei Presidi Slow Food. Era entusiasmante vedere quanto le persone ci tenessero a conoscere e gustare nuovi prodotti della terra.

Troppo spesso succede che i legumi vengano usati come contorno ai piatti di carne e di pescePoveri, poveri legumi (e poveri animali)! Eppure sono così interessanti dal punto di vista di gusto, valori nutrizionali e consistenze che si meritano un bel posto sul podio dei secondi piatti della tradizione italiana.

TOFU, TEMPEH E TESTURIZZATO: COSA SONO QUESTI INGREDIENTI?

Ma la soiaaaa fa maleeeee!

Ogni due per tre questo commento echeggia sui social.

Partiamo da un presupposto: questo mito della soia che fa male è già stato sfatato da anni grazie a ricercatori, medici e nutrizionisti che ne hanno studiato le caratteristiche! Inoltre, tofu e tempeh NON nascono come ingredienti vegani in Italia. Non sono ricette tradizionali nostrane né ricette inventate da vegani. Sono prodotti tradizionali tipici dell’estremo Oriente, usati tradizionalmente nei loro secondi piatti. Tradizionali significa che vengono usati da secoli o millenni (e magicamente queste persone sono ancora in vita nonostante mangino soia).

Il tofu, ad esempio, si trova sempre nei piatti della cucina cinese o giapponese, sia da solo che accompagnato ad altri ingredienti di origine animale. Dunque, niente di nuovo, né strano né di prettamente vegano sotto il sol levante.

Ma vediamoli nel dettaglio:

TOFU (in cinese 豆腐, dòufǔ; in giapponese 豆腐 tōfu)

È chiamato anche caglio di semi (di soia) e, come dicevamo, è un alimento diffuso in quasi tutto l’Estremo Oriente (Cina, Giappone, Corea, Vietnam, Thailandia, Cambogia). Sebbene in Occidente sia noto con il suo nome giapponese, ha origini cinesi.

carne coltivata e secondi piatti vegani

Come si ottiene? Si estrae un liquido gelatinoso dalla soia, spremendo le fave di soia, e lo si fa “cagliare” con uno o più cagli in base alla composizione e alla consistenza che si vogliono ottenere alla fine. Il caglio viene dissolto in acqua e mescolato alla spremuta delle fave di soia portato ad ebollizione, finché l’impasto non coagula in una forma morbida. A seconda del caglio utilizzato, si ottengono tofu con diverse porosità e con altre caratteristiche microscopiche.

Esistono diverse varietà di tofu. Purtroppo, noi qui in Italia non abbiamo accesso a tutte, e anche ai loro sottoprodotti, ci dobbiamo un po’ accontentare (che peccato). Riusciamo facilmente a trovare il tofu classico (che rimane leggermente più duro), il silken tofu (tofu vellutato) che rimane morbido, vari tipi di tofu aromatizzato – come quello affumicato.

Difficile trovare in Italia i sottoprodotti che arrivano dalla produzione del tofu, come la yuba (腐皮 in cinese; yuba in giapponese; yubu in coreano) o pelle di tofu, ottima fritta, o come la polpa di soia, ovvero fibre, proteine e amido che rimangono una volta che le fave di soia vengono pressate e bollite.

Troviamo il tofu senza soia? In Italia trovate il tofu di canapa (creato nel 2009 da Daniele Cannistrà in una piccola cittadina della pianura padana) chiamato Hemp-fu, ed esiste anche il tofu burmese fatto a partire dai ceci al posto delle fave di soia (anche se sembra più una panella/polenta che un tofu).

L’origine del tofu? È avvolta nel mistero e si perde nella notte dei tempi. Sarà stato Liu An il nobile principe ad inventarlo nel 164 a.C.? Le informazioni a nostra disposizione sono pochissime, come quelle che si hanno sull’invenzione di formaggio e burro. Il tofu probabilmente esisteva ben prima di Liu An, ma sappiamo con certezza che era conosciuto, prodotto e consumato in Cina già nel II secolo d.C. Poi il tofu emigrò in Giappone, verso al fine del VII secolo, e in altri paesi dell’Est Asiatico.

Prima del XX secolo, il tofu non era ancora molto conosciuto nel mondo occidentale; tuttavia, l’incremento degli scambi culturali e un progressivo aumento di interesse verso la dieta vegetariana/vegana lo hanno reso un prodotto facilmente reperibile anche in Occidente (evviva!).

Ecco perché ci sembra un ingrediente nuovo qui in Italia ed ecco perché è così tanto bistrattato e mal cucinato (ebbene sì, tante persone si ricrederebbero ad assaggiarlo nella cucina tradizionale di alcuni paesi asiatici e storcerebbero meno il naso!). Mi raccomando, se avete ospiti che non l’hanno mai assaggiato, è vietato usarlo come fosse feta nell’insalata! Lo Chef vi vede!

I suoi usi in cucina asiatica sono innumerevoli. Potremmo farne un elenco infinito ma voglio parlarvi anche degli altri ingredienti. Una cosa è certa: usiamolo! Nella masterclass dedicata ai Secondi Piatti Vegani l’abbiamo usato per preparare l’arrosto, l’omelette baveuse e la frittata, i burger… insomma, dobbiamo sbizzarrirci e inserirlo nella nostra alimentazione.

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TEMPEH

carne coltivata e secondi piatti vegani

Ecco un altro ingrediente dal gusto unico e dai valori nutrizionali preziosi, il tempeh.

Ma da dove arriva? È originario dell’Indonesia, molto probabilmente di Java, e sembra sia stato scoperto addirittura migliaia di anni fa (ma anche qui è difficile stabilirlo con certezza). L’origine del tempeh non può essere separata dall’origine del fungo che viene usato per la fermentazione. Si tratta di un micelio che cresce sul legno di Taek o sulle foglie dell’ibisco, foglie che i giavanesi spesso usano per avvolgere i cibi. Infatti, nel tempeh tradizionale viene usata una foglia ricoperta di micelio (usar) invece del ragi che si acquista in negozio.

Originariamente, la soia che si usava per il tempeh era quella nera, nativa di Giava, sostituita poi da quella gialla/bianca con l’arrivo dell’industria alimentare sull’isola.

In Italia abbiamo la fortuna di trovarlo già pronto con diversi legumi (soia, ceci, piselli, fagioli dall’occhio). Ma potete sbizzarrirvi e produrlo in casa se avete tempo e pazienza (attenzione però alla gestione del micelio!).

Che cosa vuol dire tempeh? Sembra che la parola derivi dalla parola tumpi in giavanese antico, ovvero un cibo biancastro fatto con pastella fritta (di sago – amido – o  amido di riso) che assomiglia al rempeyek (che sono dei particolari crackers indonesiani). Lo storico Denys Lombard ipotizza che la parola possa essere legata al termine tape o tapai che significa fermentazione.

Come viene prodotto? Si parte dai fagioli di soia che vanno decorticati. La lavorazione principale del tempeh è la fermentazione attraverso lo starter di fermentazione Rhizopus oligosporus or Rhizopus oryzae. Viene lasciato fermentare fino a 48 ore ad una temperatura di circa 30°. Attenzione a non eccedere nella fermentazione perché finireste per buttare il prodotto.

Esistono diverse varietà di tempeh e tantissimi modi per cucinarlo. Anche qui, possiamo sbizzarrirci e acquistarne o farne in casa con legumi diversi, così da variare sempre il più possibile i nostri pasti. Anche se la morte sua rimane sempre e comunque la frittura (al ristorante spesso proponevamo fettine di tempeh fritto come si deve, con salsine speciali e contorni: sempre un grande successo).

TESTURIZZATO DI SOIA

carne coltivata e secondi piatti veganiTesturizzato o proteine vegetali testurizzate o proteine della soia testurizzate, bocconcini di soia o bistecchine di soia: ecco i diversi nomi con cui viene chiamato questo prodotto realizzato con farina di soia sgrassata, un sottoprodotto della lavorazione dell’olio di soia (insomma, non buttiamo via nulla!).

Può essere prodotto a partire dalle farine di altri legumi sgrassati come lenticchie, piselli, ceci o noccioline, come il testurizzato di noccioline (peanuts) prodotto in Cina, dove questo olio viene correntemente usato per cucinare.

Ma chi l’ha inventato? Dobbiamo l’azienda alimentare Archer Daniels Midland che lo inventò nel 1960 (quindi neanche questo prodotto è poi così giovane…) grazie a un estrusore (un macchinario) delle proteine, che può trasformare gli ingredienti in diverse forme. Inizialmente era usato solo come aggiunta alla polvere di Chili, ma non fu un gran successo. I consumi schizzarono alle stelle quando ne fu approvato l’uso nelle mense scolastiche statunitensi negli anni ‘70.

Non sappiamo dirvi il perché, ma al ristorante l’abbiamo snobbato (che gran peccato). Rivalutato nell’ultimo anno e mezzo, ci ha regalato delle emozioni come sostituto della carne. Vi ricordate il vegnuggets o le scaloppe? Una goduria! E tornerà tra noi per i saltimbocca (ve ne parleremo meglio nelle prossime mail).

In Italia si trova solo di soia nei vari formati (ragù, bocconcini o bistecchine) e di piselli per fare il ragù (purtroppo non per le altre versioni). Confidiamo di un’apertura del mercato verso questo ingrediente, anche perché il rapporto qualità prezzo è unico. Pensate che negli Stati Uniti viene usato come sostituto delle carne nelle scuole, nelle prigioni e nelle preparazioni alle catastrofi per via del prezzo relativamente basso, dell’alto contenuto di proteine e della lunga durata sugli scaffali.

SEITAN O NON SEITAN, NON È PIÙ UN DILEMMA

Di che cosa si tratta?

È un ingrediente altamente proteico a base di glutine del grano di tipo tenero o farro o Khorasan e contiene pochi grassi, solo l’1,5%. A causa dell’elevata presenza di glutine il seitan è controindicato, ovviamente, per i pazienti affetti da celiachia e sconsigliato a chi ha problemi di intolleranza (ma torneremo su questo punto più avanti).

carne coltivata e secondi piatti vegani

Immaginate un po’… anche il seitan ha antiche origini orientali (ma quanto li amiamo questi orientali noi vegani?). Il seitan commercializzato in occidente si differenzia dai piatti a base di glutine tradizionali dell’oriente, in particolare in Giappone, dove veniva chiamato kofu, “glutine di grano”. Furono i monaci buddisti a inventarne l’impasto per sostituire i cibi di origine animale.

In Oriente, infatti, troviamo, tra tanti tipi: Yaki-fu (焼き麩), una pietanza giapponese a base di glutine secco cotto al forno, fino a ottenere le sembianze di una forma di pane; e yóu miànjīn (油麵筋), piatto cinese di glutine fritto, di colore marrone e spesso associato a funghi Shiitake.

Il nome attuale venne invece coniato in tempi più recenti, all’inizio degli anni Sessanta, da uno dei protagonisti principali delle teorie legate alla dieta macrobiotica, George Ohsawa. Secondo le interpretazioni più diffuse seitan è formato dalla sillaba 生 (sei, “fresco, crudo“), e dalla sillaba 蛋 (tan, da 蛋白 (tanpaku, “proteine“).

Quindi, sfatiamo il mito che il seitan sia un ingrediente nuovo inventato in Italia e in Europa apposta per i vegani. Il glutine di frumento, infatti, è documentato in Cina a partire dal ‘500. La storia narra che l’invenzione fu di uno chef che, per sostituire la carne, lo cucinò per l’imperatore Cinese che, tradizionalmente, osservava una settimana di vegetarismo all’anno.

È arrivato poi in Occidente nel ‘700. Nel trattato italiano De Frumento dedicato al grano scritto in latino da Bartolomeo Beccari nel 1728 e pubblicato a Bologna nel 1745, viene descritto il processo di lavaggio della farina di grano per estrarre il glutine.

Già che si siamo, sfatiamo anche il mito che il seitan non vada bene in macrobiotica, dato che l’ha inventato il padre della macrobiotica, George Oshawa.

Sul mercato italiano (noi ci riferiamo a quello del biologico) ne troviamo di diversi marchi. Purtroppo, non tutti sono morbidi, quindi quando lo scegliete cercate di privilegiare questa qualità, soprattutto se avete degli ospiti (ce ne sono alcuni che sono terribili e sembrano suole di scarpa, evitateli come la peste).

I migliori, secondo noi, sono quelli di Soyalab e Mediterranea. Rimangono morbidissimi. Al ristorante faceva impazzire chiunque. Infatti, quando non siamo più riusciti a reperire tramite i nostri fornitori quello di Soyalab che per noi era il top dei top, abbiamo tolto il seitan dalla carta. Ottimo anche quello dell’azienda Salvia che trovate in barattolo di vetro sotto salamoia (rimane morbidissimo, una goduria!)

Possiamo trovare il seitan sotto forma di fettina, di arrosto oppure sotto forma di farina di glutine che serve per preparare il seitan in casa. Grazie a questa farina sul canale YouTube ci abbiamo fatto le mitiche polpette che battevano quelle della nonna, che hanno fatto impazzire tantissimi di voi.

Ebbene, so che qualcuno di voi sta pensando: ma io non posso mangiare seitan!

Ma secondo voi se posso trovare dei sostituti non ve li propongo???

Infatti, ho rivisitato proprio quelle polpette e le ho trasformate in polpette senza glutine (tutta la procedura si trova nella masterclass Secondi Piatti Vegani, te ne parlerò meglio nei prossimi giorni).

E le altre ricette? Come faccio a sostituire il seitan?

Allora, ci sono delle basi che sono facilmente sostituibili. Ad esempio, per i saltimbocca abbiamo scelto il testurizzato di soia invece del seitan perché si presta ugualmente bene per la rosolatura. Ma penso anche al seitan detonnato, che trovi sempre nella masterclass, e anche in questo caso il testurizzato di soia può sostituire tranquillamente il seitan. Stessa cosa per il brasato. Per gli arrosti, ne propongo ben due senza seitan e due con il seitan fatto in casa.

Ormai anche l’affettato l’ho fatto senza glutine e sta arrivando nella Masterclass Secondi Piatti Vegani anche l’entrecôte vegan fatta totalmente senza glutine, senza farina di ceci e senza proteine isolate. Ti faccio vedere qualche foto dei piatti qui di seguito.

SECONDI PIATTI VEGANI: IL MIO ORGOGLIO

Vuoi vedere come questi ingredienti si trasformeranno nei tuoi piatti? Abbiamo creato una masterclass intera dedicata ai secondi piatti vegani. Il primo e unico corso in Italia dedicato alle proteine vegan.

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CONCLUSIONI

Esplorare il mondo dei secondi piatti vegani ti porterà verso nuove esperienza gustative e culinarie. Chi si forma si impegna per un futuro senza violenza né sfruttamento, questo è la nostra idea. E in aggiunta, potrai divertirti ai fornelli!

Grazie per avermi letto fin qui! Se vuoi puoi condividere l’articolo con le persone che sono interessante a questo argomento!

Ti aspettiamo ai fornelli per dei secondi piatti vegani strepitosi!

Tiziana Caretti